La locuzione latina homo faber fortunae suae, espressa anche nella forma alternativa homo faber ipsius fortunae, significa letteralmente «l'uomo è l'artefice della propria sorte». La frase è attribuita all'autore romano Appio Claudio Cieco che la usò nelle sue Sententiae, massime a carattere moraleggiante e filosofeggiante, riferendosi alla capacità dell'essere umano di poter guidare il proprio destino e gli eventi che lo circondano.
L'espressione homo faber venne riscoperta e rivalutata dagli umanisti del XIV secolo, rappresentava un sapere non più fine a se stesso, ma che racchiudeva anche un potere: un sapere cioè non solo contemplativo ma funzionale all'azione, attore e costruttore del mondo, in virtù della centralità che l'anima umana assumeva nell'universo. Tenendone collegati gli estremi opposti, il cielo e la terra, il macrocosmo e il microcosmo, l'uomo è definito infatti da Ficino vera copula mundi, poiché scopre la loro segreta e occulta analogia e li riunifica grazie alla forza dell'amore.
Anche Pico della Mirandola esaltò la peculiarità dell'uomo, unico, nella «scala degli esseri», in grado di potersi forgiare da solo, avendo libertà di scelta e capacità di evolversi verso l'alto o abbruttirsi verso il basso.
Nell'ambito dell'antropologia culturale, la definizione di homo faber viene genericamente contrapposta a quella complementare di homo religiosus e contemplativo, per quanto lo studioso Mircea Eliade abbia messo in risalto che il modo di operare dell'homo faber è da ricondurre pur sempre ad un contesto sacro, senza rottura col trascendente, essendo il sacro «un elemento della struttura della coscienza e non un momento della sua storia».
Questa concezione si è andata sviluppando nel corso dei secoli, ma oggi molti di noi si chiedono se tutto questo sia vero, se sia l’uomo a determinare gli eventi della propria vita o se tutti noi siamo sottoposti a un destino determinato da qualcosa di trascendente, superiore e più grande di noi o anche, come in molte concezioni antiche, che ogni nostra scelta determina lo scaturire del nostro destino esattamente in relazione alla scelta che abbiamo fatto, che se fosse stata diversa avrebbe portato allo scaturire di eventi diversi nella nostra vita. La maggior parte di noi è convinta di essere artefice del proprio destino, altri invece sono convinti dell’esistenza di una serie di eventi già predestinati per noi, labilmente imputabili alle scelte che compiamo ogni giorno. Molti lo considerano come un qualcosa avulso dalla realtà semplicemente perché non se ne possono avere le prove materiali, concrete e certe sulla base delle quali affermare un possibile veridicità di questa ipotesi. L’accettazione dell’esistenza di un destino porterebbe molti di noi a non compiere azioni che potrebbero essere determinanti nella nostra vita, per la nostra felicità, perché scoraggiati da questa convinzione, mentre, secondo me, se ammettessimo l’esistenza del destino potremmo trarre insegnamento da tutto ciò che di positivo o negativo ci accade, non considerandolo sempre come un nostro fallimento ma con la consapevolezza che gli eventi della nostra vita siano fondamentali per la maturazione e per la formazione del carattere, della personalità e dell’essenza dell’individuo nella sua unicità.
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