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Pentirsi…

Carlotta Aceto 1 C classico

Rumori di rotaie, un altro carico arrivato.

È il quarto quella settimana, ma siamo solo a mercoledì.

Papà mi tiene vicino a lui, vedo il dolore sui volti, la paura, il terrore, un brivido mi scorre lungo la schiena, e, nonostante sia coperta dalla testa ai piedi, bardata con strati su strati di vestiti, percepisco comunque il vento freddo scombinarmi i capelli.

Tutto tace.

Non sento silenzio, ma, arrivata sul posto di lavoro di papà, è come se il tempo si sia bloccato. Diventa difficile muoversi.


Sono Gretchen e papà è un bravo dottore.

Mamma fa la maestra e, quel sabato mattina, mi ha raccomandato di mettere il cappellino.

Il cielo è grigio scuro, come il colore in cui si trasforma il pavimento del soggiorno quando Micio soffia la cenere fuori dal camino.

Sono seduta ad un tavolino, disegno, di fianco a me una collega di papà con i capelli ben legati e una divisa strana.

Sento gocciolare, così mi calo e vedo dell’inchiostro per terra, lo osservo per un po’.

Non mi rendo conto che Adina ne approfitta per imprimere un altro tatuaggio sul braccio di un signore anziano.

Sembra il nonno, solo più magro e triste. Così sento qualcosa nel pancino. Mi fa un sorriso, poi veniamo entrambi trascinati via per un braccio.

Piccoli piagnucolii sono udibili un po’ dovunque nel campo.

Vedo Annabeth, l’unica bambina che ha deciso di giocare con me, l’unica che mi ha detto di trovarmi simpatica. Gli altri mi hanno dato della “Nazista”.

- Strana parola, non so cosa significhi -

Annabeth ha i capelli color carota, molto corti dopo il taglio che il parrucchiere le ha fatto, scompigliati. Ha delle macchie viola sotto gli occhi e porta un pigiamino simile al mio.

Quando l’ho vista per la prima volta, le sono corsa incontro, le ho dato un braccialetto e lei se lo è messa al polso.

Lo avevo fatto io.


Sono giorni che non vedo Annabeth, ma a scuola è andato tutto bene e papà mi ha regalato un orsetto di peluche. Mi ha detto di chiamarlo Annie.

A, A, A, sempre A. Non so perché mi tormentino così tanto i nomi con la A, sono i più stupidi!

Papà ride quando lo dico. Capisce che sto iniziando a dimenticarmi della mia amichetta.


Sono Gretchen e ho scoperto che fine ha fatto Annabeth.

Il suo braccialetto è finito fra le altre cose, tutte ammucchiate le une sulle altre.

Papà mi porta fuori dal suo laboratorio in fretta. Una fiala è caduta per terra, e dietro il bancone vedo il braccio di un manichino. Lì dentro c’è puzza, non come a casa. Mi indica una stanza, mi dice di prendere ciò che voglio. Esito, poi arraffo quel braccialetto e me lo metto in tasca.

Esco all’aperto, rivolgo lo sguardo al cielo. Una nube di fumo oscura entra nel mio sguardo, una lacrima mi riga il viso.


Sono Gretchen e non era questo quello che volevo.

Volevo giocare con Annabeth, il suo nome non è stupido! Torno a casa e guardo la finestra, piove, vedo il mio riflesso, di fronte ho Annabeth che mi guarda e sorride. È sciupata, lo noto solo ora. Magra e il pigiama le arriva alle caviglie. Io ho in mano il suo braccialetto, lei il tozzo di pane che le ho offerto la prima volta che ci siamo viste.

Sono Gretchen e non sono come mio padre, non voglio essere più Nazista, qualsiasi cosa significhi.


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