Nell’UE, circa 1 persona su 20 di età pari o superiore ai 15 anni è stata vittima di stupro. Si tratta di quasi 9 milioni di persone. Allo stesso tempo, 1 persona su 10 è stata vittima di altre forme di violenza sessuale.
Nel 2011, il Consiglio d’Europa si è riunito per la stesura e l’approvazione della Convenzione di Istanbul, la quale stabilisce delle normative che ciascuno Stato membro del Consiglio avrebbe dovuto introdurre all’interno della propria legislazione in merito alla violenza contro le donne e alla violenza domestica. In particolar modo, l’articolo 36 della Convenzione fa un chiaro riferimento al concetto di “consenso”, ritenuto un fattore imprescindibile quando si tratta di rapporti sessuali. Nonostante la Convenzione sia stata ratificata nel 2013 nel nostro Paese, non è ancora stato introdotto il consenso come condizione determinante per definire una violenza sessuale: la nostra legislazione, difatti, prevede il cosiddetto “modello vincolato”, il quale stabilisce che solo gli atti sessuali nei quali ricorrano i vincoli della costrizione, della violenza e della minaccia possono essere condannati.
Nonostante negli ultimi anni siano state apportate delle modifiche all’articolo 609-bis, aumentando la condanna fino ad un terzo della pena base (dai 6 ai 12 anni di reclusione) in determinate circostanze, non è fatto alcun chiaro riferimento alla consensualità del rapporto. Proprio per questa ragione, l’associazione Amnesty International si è mobilitata tramite la campagna #IOLOCHIEDO, la quale, per mezzo di alcuni incontri ricchi di attività, interventi e di dialoghi mirati al confronto, punta ad una sensibilizzazione globale rispetto al tema del consenso, in maniera tale che si possa finalmente richiedere “alla Ministra della Giustizia la revisione dell’articolo 609-bis del codice penale, in linea con gli impegni presi nel 2013, affinché qualsiasi atto sessuale non consensuale sia punibile” (https://www.amnesty.it/campagne/iolochiedo/).
Nell’ambito del progetto succitato, il nostro Istituto ha preso parte a due incontri grazie alla partecipazione di quattro ragazzi delle classi III E e IV E, che, insieme alle prof.sse R. Bonventre e F. Grillo, hanno avuto la possibilità di confrontarsi con studenti ed insegnanti di tutta Italia e di partecipare a varie attività (come la lettura di dialoghi a tema o la visione di alcuni video), in modo da poter ricevere una chiara illustrazione dei molteplici motivi per cui il fattore del consenso dovrebbe essere introdotto all’interno del nostro sistema giudiziario.
Amnesty Italia afferma che il consenso è tale qualora venga dato liberamente e sia informato, specifico, reversibile ed entusiasta. La cultura del consenso pianta le proprie radici nell’unanime convinzione che un rapporto ottenuto per mezzo di minacce, soprusi, ricatti e violenze di qualsiasi tipo non è consensuale, e qualora in un primo momento l’altra persona avesse dato il proprio
consenso, ciò non significa che questa non possa cambiare idea. Una regola fondamentale è: in caso di dubbio sul consenso, chiedilo espressamente. Se sei ancora in dubbio, fermati!
Il cambiamento della nostra legislazione, in ogni caso, deve avvenire di pari passo con il cambiamento della mentalità comune. La violenza sessuale è un affronto all’integrità psico-fisica della parte offesa ed è da considerare una violazione dei diritti umani che, spesso, impedisce il godimento, da parte della vitttima, di altri diritti (come il diritto alla vita, alla salute, alla libertà, all’uguaglianza, ecc.). Molte vittime non sono a conoscenza dei propri diritti, e si trovano spesso in balia dei pregiudizi di una società disinformata e non educata rispetto a questo tema: quante volte abbiamo sentito dire “se l’è cercata”? quante volte le vittime di stupro sono state messe alla gogna a causa del loro abbigliamento, venendo colpevolizzate? quante volte i carnefici hanno avuto la meglio su un sistema giudiziario che non tutela pienamente chi subisce questi atti orribili?
Amnesty, in merito a ciò, ci dà un dato ben preciso: “in Italia, nel febbraio 2018 i dati della commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e violenza contro le donne hanno evidenziato che circa il 50 per cento dei processi per questo tipo di reati si conclude con l’assoluzione degli imputati e che, elemento ulteriore di preoccupazione, esistono profonde differenze nelle valutazioni dei giudici e delle conseguenti sentenze emesse dai tribunali italiani”. Ciò non implica, ovviamente, che tutti gli imputati fossero necessariamente colpevoli, ma la differenza nelle sentenze emesse fa comprendere come il nostro sistema giuridico manchi ancora di organicità rispetto alla valutazione di reati così gravi.
Il cambiamento deve necessariamente partire da noi in qualità di studenti, figli, nipoti, amici e, soprattutto, membri di una comunità. Dal parlarne a tavola con i propri genitori, alle discussioni con i propri amici o compagni di classe fino all’organizzazione di attività scolastiche, sono tanti i modi con cui possiamo promuovere la conoscenza di questo argomento, in modo tale da plasmare una società informata che possa condannare qualsiasi atto di violenza e possa riconoscere il vero valore della parola “consenso”.
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