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Cristian Vassallo

“Interpreti di una nuova lingua: l’accoglienza”


Una delle necessità o uno degli obblighi che ci vengono richiesti dal progredire incessante della civiltà è costruire le proprie ideologie (non solo politiche, religiose e/o di tipo umanitario) in base ad una articolazione che venga retta dall’intervento di più influssi culturali o da più processi razionali. Al contempo è però cosa assai ardua contestare le nostre convinzioni, che ci siamo dati per vivere nella società, solo per lasciare un piccolo spazio ad un’opinione differente dalla nostra, che spesso è messa al bando dal tribunale che risiede in ognuno di noi. Si determina allora la necessità di apprendere gli strumenti adeguati e dovuti

per restare a volte in silenzio dinanzi al “caos” e alle “grida” del mondo odierno e

mettersi in ascolto non solo delle proprie esigenze, della propria personalità e dei propri sussurri, ma anche di chi, nella vita, ha riscontrato purtroppo il bisogno di invocare il valore dell’inclusione e di auspicare in essa una prospettiva di salvezza. Ebbene, si tratta proprio di quell’inclusione che non di rado diviene oggetto degli artifici retorici, nonché un luogo comune delle parole della nostra classe dirigente. Sia questa nazionale, quindi italiana, sia questa europea. Estendendo la nostra attenzione al di là delle preferenze o scelte politiche influenzate e intaccate da frequentissime contraddizioni (si veda ad esempio l’apertura di conti illeciti all’estero contrapposta alla chiusura dei porti), sarebbe forse il caso che l’opinione pubblica tutta e soprattutto le giovani generazioni, le più orientate a tenere in considerazione il futuro, partano da una riflessione, a mio dire, fondamentale. È difatti opportuno avere presente che qualunque popolo e qualsiasi cittadino, persino a livello familiare, incarna e riecheggia impercettibilmente il frutto o la conseguenza di una vastissima memoria storica improntata all’accoglienza; e questa connessione semantica si può cogliere sotto molteplici punti di vista: in primo luogo, prendendo in analisi uno dei temi più “caldi” della attualità, ossia quello occupazionale. Dovremmo essere consapevoli del fatto che, come Venere fu genitrice degli Eneadi (dunque dei Romani, cfr. “De rerum natura”, I, v.1, Lucrezio), anche la nostra amata terra, italiana e nello specifico siciliana, è a tutti gli effetti una macchina generatrice di “cervelli migranti” in cerca di opportunità di impiego in suolo straniero. Saremmo quindi noi “i diversi” agli occhi degli altri (vedi “Lettere persiane”, romanzo epistolare di Montesquieu) o chi approda sulle nostre coste sopra un barcone costruito alla meno peggio? O probabilmente possiamo dedurre che in verità siamo tutti sullo stesso piatto della bilancia? In secondo luogo, il linguaggio dell’accoglienza può essere imparato e impiegato attraverso spunti dalla classicità e dalla cultura umanistica, in particolare da uno degli epiteti di Zeus, detto “ξένιος”, cioè protettore degli stranieri, o da tutte le volte in cui Odisseo trovò accoglienza favorevole e ossequi durante le varie e nostalgiche soste della sua “crociera nel Mediterraneo” della versione demitizzante di Guido Gozzano.

Per essere anche noi testimoni di tale modalità di relazione da cui sperimentare la bellezza di metterci in gioco per comprendere il mondo e soverchiare incomprensioni inestricabili, un esempio ci può giungere dalla ricchezza della tradizione culinaria della quale il nostro territorio trapanese è un brillante e fortunato erede. O ancora dall’etimologia del nome della città di Palermo (dal greco = “tutta porto”). Tutto questo costituisce la prova quanto mai più evidente che il tema dell’accoglienza è già stato impresso nel nostro codice genetico come effetto di secoli o persino millenni di commistioni e sincretismo culturale fra comunità ideologicamente più che distanti, tuttavia desiderose di lasciare ai posteri qualcosa di straordinario. Contraddire tale evidenza implica nient’altro che la negazione della nostra personale e collettiva identità, del nostro essere uomini e donne che convivono sotto un cielo di uno stesso colore o, come ne “Il Mercante di Venezia” di Shakespeare, sono raggiunti dalle medesime passioni o dai medesimi sentimenti e riscaldati o raffreddati dallo stesso inverno o dalla stessa estate.

Alla luce di ciò, allora, ci troviamo nelle giuste condizioni per ritenere che la tendenza all’intolleranza e alla discriminazione nata dai pregiudizi sociali è un residuato poco felice di pagine tristi della nostra storia, come un certo regime assolutista che ha guidato le redini dell’Europa fino al ’46 o il periodo di restrizioni preventive applicate al vivere collettivo a causa dell’insorgere del disagio pandemico attuale. Se abbiamo dunque la volontà di non riprendere influenze classiche impropriamente (l’odio di Catone il Censore verso tutto ciò che sapesse di ellenico è un esempio), ma nutriamo invece il desiderio di leggere correttamente il libro del mondo che, in fin dei conti, è un po’ come un teatro in cui ognuno recita il proprio ruolo più o meno attivo per dare origine a uno spettacolo che venga replicato nel tempo, non è forse preferibile non essere metaforicamente “analfabeti”, bensì interpreti e ambasciatori di fratellanza e condivisione in giro per la terra? Ricordando però che la carità non ammette uffici stampa. Come rivelano le inclinazioni di una parte consistente della politica attuale e dei suoi adulatori in un pianeta in cui, al contrario, si sono annullate le distanze fra i popoli proprio sul piano della loro interazione come opportunità di arricchimento, abbiamo vanificato l’aspirazione manierista di superare gli antichi in grandezza intellettuale a causa della nostra orrenda assuefazione alle azioni o ai pensieri più insulsi che, talvolta, raggiungono apici del potere immeritatamente. Non mi resta che dire di non accontentarci di indugiare al di qua dello scoglio dell’indifferenza, della diffidenza e del cinismo, che modellano la nostra mentalità sulla base del profitto. Armiamoci di curiosità e scardiniamo le chiusure imposte dai confini geografici e non accettiamo mai la strategia del terrore per imporre obbedienza e concordia. Senza questi presupposti il rischio di conseguenze terribili non è da escludere.

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