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Mario Piazza

Conoscere la verità ci rende liberi

Indagare la verità è uno dei diritti- doveri fondamentali di chi fa parte del contesto sociale in modo attivo. Tanti sono i magistrati e i giornalisti che si sono spesi per realizzare tale principio, uomini   coraggiosi che hanno rischiato l’incolumità per cambiare la società a favore della democraticità e della legalità. Nella realtà di oggi, in cui ancora persistono i valori mafiosi della prevaricazione e della corruzione, dire la verità rende molesti, ma è l’unico mezzo per svelare tutti i meccanismi sociali, anche quelli più loschi. Aldo Moro, statista rapito ed assassinato dalle Brigate Rosse nel 1978, aveva già espresso in un celebre discorso di grande attualità la forza illuminante della ricerca della verità, perché testimoniare ciò che il potere criminale vuole che non si sappia significa fiaccare l’ignoranza che ne accresce la forza. Ciò poi aiuta ciascuno a non essere spettatore inerte di quello che accade, ma ad avere il coraggio di fare la propria parte per cambiare il mondo. Un ruolo determinante in tal senso è svolto dalla Magistratura, i cui rappresentanti noti alla memoria collettiva, quali giudici Falcone e Borsellino, Ninni Cassarà, il Gen. Dalla Chiesa, hanno svolto attività giudiziarie tese sia a reprimere che a far conoscere il malaffare che vive della strategia del terrore allo scopo di controllare il tessuto sociale. Ma in realtà anche i mafiosi hanno paura, specialmente delle parole mordaci che svelano verità scomode. Per questo mettere alla luce illeciti ed affari sporchi ne mina direttamente la struttura e ne inibisce il potere intimidatorio. Non c’è da stupirsi se Falcone e Borsellino siano stati uccisi barbaramente nel 1992 per mano dei corleonesi di Totò Riina per aver avuto, con il maxi-processo di Palermo, il coraggio di lanciare una sfida senza precedenti a Cosa Nostra, gettando le basi per la scoperta di una vera e propria trattativa Stato-Mafia. Emerse infatti dall’esito dei vari processi la presenza, accanto ad uno Stato visibile, di uno Stato occulto complice di patti segreti con la mafia e del cui sistema facevano parte molti colletti bianchi artefici di carriere politiche e fortune economiche. Da qui la scoperta che l’omicidio del Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella e del segretario regionale del PCI Pio La Torre celasse, sotto l’apparente causa mafiosa, una motivazione politica tenuta segreta. E ancora, l’inserimento nel nostro ordinamento del reato di scambio elettorale da parte di Falcone non è forse frutto del desiderio di svelare le trame della parte malata del governo per quella legalità, lesa nel principio di uguaglianza, come vuole l’articolo 3 della Costituzione, nel momento in cui un candidato ricambia il voto di un elettore con favori molto spesso illeciti? Lo sa bene anche il prefetto trapanese Fulvio Sodano che nel 2003 impedì ai boss di riappropriarsi della “Calcestruzzi ericina” pagando con il trasferimento le accuse al sistema mafia-politica-imprenditoria.    L’arduo compito di togliere il velo della menzogna alla realtà manipolata tocca anche all’informazione. Il sano giornalismo ha infatti come obiettivo quello di spiegare la realtà senza condizionamenti, svolgendo un’importante funzione civica come strumento di lotta all’illegalità e pilastro dello stato democratico perché, per usare un’espressione di Don Ciotti, “solo una democrazia capace di raccontarsi con onestà è una democrazia sana”. Lunga è la lista dei giornalisti immolati sull’altare della verità. Ricordiamo Peppino Impastato che con la sua emittente Radio Aut lese gli interessi dei mafiosi di Cinisi e Terrasini tanto da essere ucciso nel 1978, così come Mauro Rostagno, dieci anni dopo, per aver denunciato la collusione tra mafia e politica locale con le sue interviste su Radio Tele Cine. Come non citare poi Mino Pecorelli, assassinato nel ‘79 mentre lasciava la redazione del giornale OP a Roma, per aver denunciato episodi di corruzione attaccando i poteri forti, tra cui il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, rilanciando le accuse contenute nel memoriale di Moro trovato nel covo delle Brigate Rosse. La lotta alle storture e ai mali sociali non è però delegabile solo alle istituzioni ma richiede l’azione comune. In particolare la scuola è chiamata ad una funzione di grande responsabilità, cioè quella di forgiare le coscienze dei giovani educandoli ad essere cittadini responsabili, capaci di rompere il silenzio omertoso che è il vero ostacolo alla conoscenza della verità. Tacere facendo finta di non vedere o sentire è un comportamento che getta ombra sulla realtà dei fatti e che tradisce noi stessi e i valori della Costituzione. Solo infatti attraverso la promozione della cultura della legalità e la sensibilizzazione al rispetto delle norme sociali si può sperare la trasformazione della nostra società in una realtà sana e rispettosa della democrazia, che sappia vivere civilmente secondo giustizia.

 

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