Intervista a Francesco Bellina
Francesco Bellina è un accreditato fotoreporter trapanese. Benché giovane, ha alle spalle un curriculum di tutto rispetto e le sue collaborazioni vanno dal Guardian al Der Spiegel, all’Espresso. Non mancano, poi, collaborazioni con istituzioni come l’ONU. Bellina ha fatto della sua passione uno strumento etico di denuncia scegliendo di documentare, attraverso le immagini, storie di migrazione, diritti umani negati, mafie. Le sue foto dimostrano un’altissima sensibilità artistica che va oltre la semplice cattura di un’immagine, per quanto questa possa essere significativa, e, per questo motivo, è stato segnalato per ben due volte all’interno del programma educativo più prestigioso della World Press Photo Foundation.
Già studente del nostro liceo, lo incontriamo per approfondire alcuni temi relativi alla sua attività professionale.
1. Dove hai tratto la forza di abbandonare gli studi di giurisprudenza per seguire la tua passione?
In realtà un calcio me l’ha dato la mia fidanzata nel 2015, momento in cui ho deciso di abbandonare l’università. Andavo a studiare a Casa Professa, che è uno studentato, una biblioteca che c’è a Ballarò; lei studiava medicina ed io giurisprudenza e quando andavo con lei a studiare portavo con me la macchina fotografica, quindi dopo mezz’ora di studio, interrompevo ed andavo a fare le foto nel quartiere. Mi sono reso conto che potevo fare questo mestiere quando ho visto diventare popolare un mio reportage sulla mafia nigeriana a Ballarò e sulla vendita della droga; non aveva senso continuare a perdere tempo studiando giurisprudenza, perché per me studiare giurisprudenza è stato un ripiego, volevo studiare fotografia a Milano, ma, siccome la mia situazione economica non me lo consentiva, per me era già un gran risultato essere a Palermo. Il mio obiettivo era scappare da Trapani per cambiare un po' la visione del mondo, perché quando esci da Trapani ti rendi conto che c’è un mondo a noi sconosciuto. Quindi mi sono lasciato andare, anche se mi sentivo in colpa nei confronti dei miei genitori. Ho cominciato un ritmo assurdo, però mi ha dato la carica. Io a Trapani facevo politica e tutte le esperienze peggiori le ho vissute a Trapani e non in Africa.
2. Cosa cattura il tuo sguardo quando realizzi i tuoi scatti?
Io di solito faccio delle foto che siano attinenti alla realtà e a quello che succede, quindi cerco di fare vedere semplicemente degli angoli che alle volte passano inosservati perché non ci soffermiamo tanto, anche perché dipende molto dal proprio punto di vista e da come guardiamo le cose. Cerco di raccontare cose che non rientrano nella logica del mainstream o che sembrano non interessare a qualcuno; cerco di essere l’opposto del mainstream, anche se alle volte devi farlo per campare, perché l’Italia è uno dei paesi in cui il giornalismo è super penalizzato: in primis sbagliano i giornalisti perché per molti fare giornalismo vuol dire raccontare la notizia non appena viene rilasciata; io invece ho sempre lavorato al contrario, vado alla base e cerco di capire cosa è successo, anche se ci metto un mese o due, però almeno so di raccontare la verità.
3. La fotografia di denuncia è una declinazione del fare politica?
Secondo me sì. Facevo politica attivamente, adesso faccio politica tramite il mio lavoro. Non ho mai smesso, solo che insieme alla politica provo a fare anche arte ed il tutto risulta più gradevole. Per i temi che ho trattato, come quello dello sfruttamento, ti metto i fatti davanti, non provo tanto interesse nel fare altri lavori che non siano giornalistici. Non dico apertamente di fare politica, ma in un certo senso è così. Le foto non sono mai oggettive, ognuno interpreta alla propria maniera.
4. I tuoi reportage sono spesso realizzati nel Sud del mondo: quanto sono marcati i confini fra i Paesi del Sud del mondo e quelli più civilizzati?
Il confine che vedo io è come se fosse tutto sulla stessa zolla, da Roma a Johannesburg, ma da Roma in su vedo molti più confini, dal punto di vista culturale. A livello umano sicuramente, generalizzando, c’è più attenzione alle piccole cose, al gesto di cortesia, più rispetto tra le persone, generosità. Io sono cresciuto coi miei nonni, che mi hanno dato un’educazione che era quella loro, degli anni ‘30. Spesso e volentieri sono uscito dalle situazioni più pericolose utilizzando i metodi che mio nonno mi aveva trasmesso, che sono cose che noi siciliani abbiamo nel sangue. In Africa c’è più sensibilità, noi alcuni valori importanti li abbiamo dimenticati.
5. Fra i reportage da te realizzati, quindi, nel tuo confronto con problemi come quello della migrazione dai Paesi subsahariani verso l’Europa o quello sulla tratta delle schiave sessuali nigeriane, qual è quello che maggiormente ti ha toccato?
Maggiormente non lo so. È tutto triste, la cosa peggiore forse è stata vedere come queste ragazze credevano a delle cose che noi possiamo chiamare cristianesimo o in altri modi. E’ una religione per loro che ti porta a compiere dei crimini contro l’umanità, anche quando stai tenendo una persona segregata in nome di una divinità solo per fare soldi; quindi è tutto costruito. Con il rito voodoo cerchi di lavorare mentalmente sulla persona e farle cambiare il punto di vista.
6. Sei mai stato tentato di abbandonare i temi della denuncia sociale per affrontarne di più frivoli?
Sì, anche se alle volte non ci sento piacere, quindi, quando cedo, lo faccio solo per soldi.
7. Cosa consigli ad un ragazzo, una ragazza prossimi alla maturità? Qual è il modo più giusto per approcciarsi alla vita adulta?
Prima di tutto comprare il giornale ogni giorno, leggere quotidiani sempre, non sul sito, ma su cartaceo, imparare l’inglese come se non ci fosse un domani. Consiglio di essere sempre se stessi e non credere alle ricette preconfezionate. Per lavorare ci vuole altro, non seguire consigli tipo “se vai in quell’università riesci nella vita “. Consiglio di essere sempre critici.
8. Che ricordi ti legano al nostro liceo?
Il Liceo Classico per me è la miglior scuola che si possa frequentare. Anche adesso, quando devo fare delle selezioni tra possibili collaboratori, cerco di scegliere persone che abbiano frequentato il liceo classico, perché hanno una cultura ed un approccio alle cose che è completamente diverso da quello di altri con un background diverso. Sei padrone della parola dopo aver fatto il Liceo Classico. Io avevo il professore Ingrassia, adesso andato in pensione, quando veniva le prime volte ci parlava in siciliano, inizialmente non capivamo il motivo, ma poi ti rendi conto che l’approccio è fondamentale. Prima era un liceo borghese. Frequentare questo liceo mi ha dato l’opportunità di dialogare senza alcun tipo di problema con qualsiasi persona, anche ministri, per questo il liceo è stato importantissimo.
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